~ Ariel Make Up & Belle's Library ~

Il Calice della Creazione, ~ Le Cronache Di Narnia

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Lyra‚
view post Posted on 14/1/2014, 12:15




Il Calice della Creazione






Indice
-- Prologo
1. Aria di tempesta
2. È forse una favola?
3. Una nuova avventura





RoseDivider


Prologo


"Oh, no... Ti prego, no!" Pensai quando vidi spuntare dall'angolo del corridoio Adam Pitt e Jonas Connolly. Li temevo più di ogni altro, in quella scuola, e detestavo come riuscissero a farmi sentire in colpa per il mio aver paura di loro.
- Oh, guarda... chi si vede, la piccola Graham! - Esclamò Adam.
Abbassai lo sguardo e cercai di tirare dritto per arrivare il prima possibile al portone d'uscita.
- Hey, Graham, non si saluta? - Esclamò Jonas.
Putroppo erano entrambi molto più alti di me, nonostante avessimo la stessa età, quindi mi raggiunsero in un battibaleno: si misero tra me e la fine del corridoio scambiandosi uno sguardo beffardo e poi chinandosi per arrivare alla mia altezza.
- Buongiorno, piccola. - Disse Adam con aria sorniona.
Abbracciai più stretti i libri che avevo tra le mani e distolsi lo sguardo, cercando di allontanarmi. Jonas mi strappò i libri che avevo in mano e iniziò a sfogliarli distrattamente.
- Ti sei di nuovo rifugiata in biblioteca, eh? Certo che una mocciosetta come te che ci troverà di bello in un buco polveroso come quello? - Disse.
- A chi sa leggere piace. - Replicai, ritrovando un po' di coraggio ma stupendomi di come la mia voce risultasse stridula.
- Bah, sei proprio noiosa! - Esclamò Adam, allungando un braccio quel tanto che bastava per far scivolare la cinghia della tracolla dalla spalla. La borsa cadde sul pavimento aprendosi e spargendo sul pavimento tutto il suo contenuto.
Mi inginocchiai per raccoglierlo senza dire o fare nulla: la cosa migliore che potessi fare era essere così poco interessante da invogliarli a sparire.
Come previsto, Adam alzò gli occhi al cielo e Jonas fece cadere i due libri che aveva in mano sul mucchio di quelli per terra, allontanandosi ridendo assieme al suo amico.
- Ci vediamo domani, Graham. Sempre che non ti si consumino gli occhi sui libri, nel frattempo! - Esclamò Jonas.
Mentre raccoglievo le mie cose nella tracolla sentivo la loro risata echeggiare nei grandi corridoi della scuola e quando fui certa che avevano cambiato aria tirai un sospiro di sollievo: Adam e Jonas erano i teppisti della scuola, quelli che comandavano su tutti, perfino su quelli dell'ultimo anno... e ovviamente in metà dei corsi erano proprio con me, la ragazzina che più degli altri aveva paura di loro.
Sebbene detestassi gli incontri con quei due ragazzi in corridoio, da quando la guerra era finita ed eravamo tornati alla nostra vita di sempre mi faceva piacere andare a scuola. Avevo sempre amato studiare, ma la cosa che mi era mancata di più durante la guerra e i mesi passati lontana da casa erano stati i libri della biblioteca cittadina.
Stavo infilando le ultime cose nella borsa, persa nei miei pensieri, quando mi accorsi che qualcuno mi stava tendendo un libro. Sopresa dal fatto che ci fosse qualcun altro a scuola a quell'ora di sera, alzai gli occhi stupita: un ragazzo delizioso era accovacciato davanti a me e mi fissava con un sorriso divertito, mentre i suoi limpidi occhi azzurri scintillavano sotto un ciuffo disordinato di capelli dorati.
Non ci avevo mai parlato in prima persona anche alcuni miei compagni di corso erano suoi amici, ma lo conoscevo, naturalmente. Era stato il protagonista di quasi tutte le rappresentazioni teatrali che avevano avuto luogo da quando il liceo aveva riaperto, e a cui io non ero mai mancata.
- Hai avuto un incidente di percorso? - Domandò.
- Tutto a posto, grazie. - Esclamai, abbassando gli occhi e sentendo le guance arrossire. - Ho solo incontrato Pitt e Connolly, niente... niente di nuovo -
Chiudendo la borsa e alzandomi in piedi, sistemai la sciarpa e la giacca della divisa scolastica cercando di ignorare l'evidente imbarazzo che si stava impossessando di me ogni minuto che passava. Evitando il suo sguardo, gli sorrisi timidamente. - Ora vado, altrimenti perdo il treno. -
- Anche io sto andando in stazione. - Disse lui. - Vengo con te. -
- Non serve. -
- Sarebbe imbarazzante camminare a poca distanza, ora che ci siamo parlati e sappiamo di avere la stessa meta, non ti pare? -
Annuii vagamente, sapendo di avere le guance rosse e di non essere affatto pronta a una discussione con lui, ma mi avviai al suo fianco verso la stazione mentre il primo venticello tiepido di primavera ci spettinava i capelli. Per mia fortuna fu lui a sostenere la conversazione per tutto il tragitto: mi limitai ad annuire o a fare commenti banali di tanto in tanto. Quello che era sicuro era che non stavo dando l'impressione di una ragazza interessante.
Quando arrivammo al binario, il mio treno si era appena fermato con le porte aperte.
- Io vado, ciao! - Dissi sollevata. Avevo fatto tre passi verso il treno quando la mia buona educazione tornò a farsi viva: mi voltai e gli scoccai un mezzo sorriso. - E grazie! -
- Di niente! - Rispose lui, mentre il rumore delle porte che si chiudevano copriva le sue parole.
Mentre il treno sfrecciava per la campagna inglese che iniziava a riprendere vita dopo il torpore dell'inverno, mi appoggiai con la testa al finestrino e ripensai all'inconsueto incontro fatto in corridoio. Sorrisi al pensiero di quel ragazzo così gentile e a quello della sua buffa e meravigliosa famiglia, i Pevensie: li vedevo ogni mattina, tutti e quattro sorridenti uniti tra loro come non avevo mai visto nessuno.
Le due ragazze poi, le invidiavo un po': la più grande si chiamava Susan ed era bella da lasciare senza fiato, con quei lunghi riccioli bruni e gli occhi color del cielo. La piccola Lucy, poi, prometteva di diventare ancora più affascinante della maggiore: bionda e delicata, con un fantastico sorriso e gli occhi vivi e trasparenti.
Sospirai. Le invidiavo, sì, le invidiavo davvero parecchio: la mia costituzione minuta e i miei capelli chiari che non volevano sapere di ricci e onde non mi avrebbero mai resa affascinante o attraente. Non che la cosa fosse importante, naturalmente. Non mi importava di fare strage di cuori o attirare sguardi maschili: trovavo la compagnia maschile difficile da gestire e sarebbe stata una bugia negare che stavo benissimo anche da sola.
Nel frattempo il treno era arrivato, sferragliando, alla stazione vicino a casa e camminando nella penombra del crepuscolo che avanzava raggiunsi la villetta marrone a due piani che sorgeva ai margini del quartiere. Aprii la porta salutando, aspettandomi qualche segno di vita: per tutta risposta mia sorella mi gridò dalla sua stanza che lei era a casa da un pezzo e che aveva visto che non c'era niente da fare per cena.
Con un sospiro - senza però ammettere nemmeno a me stessa che stavo sospirando - presi qualche soldo per il droghiere e uscii per recuperare qualcosa da mangiare. Sapevo già che i miei genitori sarebbero tornati dal lavorostanchi e irritabili e che sarebbe stato molto meglio fare trovare loro qualcosa di pronto sulla tavola, una figlia sorridente accanto ad essa e nei piatti tanta, tanta pazienza con cui placare gli animi burrascosi e stressati di chi stava soffrendo le ristrettezze del dopoguerra.
Mentre mi chiudevo la porta alle spalle e assaporavo l'odore dei fiori sbocciati da poco sul mio davanzale, così forte e intenso da impregnare l'aria attorno a tutta la casa, pensai che quella era la mia routine quotidiana... e, anche se a volte mi ritrovavo a detestarla, non avrei voluto cambiarla per niente al mondo.


Edited by Lyra‚ - 11/3/2014, 22:13
 
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Lyra‚
view post Posted on 26/1/2014, 12:58





I
Aria di tempesta



La mattina successiva presi di nuovo il treno, allegramente, assieme a mia sorella. Juliet non è mai stata esattamente 'adorabile': non è cattiva, assolutamente, è solo che pensava che io vivessi in un mondo assurdo fatto di fate e magia invece che nella vita reale. Essendo più giovane di me di due anni e avendo già un fidanzato in aria di matrimonio, ripeteva continuamente che io sarei rimasta una credulona in eterno, sempre sola con i miei libri fatti di fantasie, chiusa in un mondo di pixie e folletti in cui non avrei ammesso nessun adulto, soprattutto se di genere maschile. Lo ripeteva spesso, e con convinzione, sgridandomi spesso e ricevendo anche l'appoggio dei miei genitori, mio padre in particolare. Ma io sono sempre stata piuttosto ostinata e non le ho mai dato troppo peso: i miei libri e la mia immaginazione sono sempre stati il mondo perfetto che mi accoglieva a braccia aperte ogni volta che ne avevo bisogno, e non ci avrei mai rinunciato. Ho sempre creduto tanto nel potere della fantasia da aver tentato spesso di coinvolgerla nelle mie letture e nei miei sogni ad occhi aperti, sebbene sempre senza risultato.
Quando scendemmo del treno alla stazione vicino a scuola quasi ci scontrammo con la famiglia Pevensie al completo.
- Ciao! - Esclamai con calore rivolgendomi a Susan e Lucy, incrociate spesso nei corridoi.
- Ciao! - Risposero loro con un sorriso.
Mia sorella mi guardò strabuzzando gli occhi, forse incredula del vedermi parlare con gente nuova, e poi mi salutò con un cenno del capo, raggiungendo le sue amiche.
Pensavo di fare la strada verso la scuola tra me e me, ma Lucy Pevensie mi si affiancò parlando con tanto entusiasmo della primavera che mi fu impossibile lasciar perdere: eravamo caratteri affini, io e lei, e quindi bastò un istante e una manciata di parole per trovarci a parlare della meravigliosa primavera che stava colorando i giardini e le strade con lo stesso entusiasmo, mentre alle nostre spalle sua sorella e i suoi fratelli camminavano chiacchierando tra loro.
Davanti a scuola, le nostre strade si divisero e la giornata si apprestò a trascorrere come sempre: alla fine delle lezioni riuscii a raggiungere la biblioteca al riparo da incontri indesiderati. Quando il quieto tepore della mia amata biblioteca mi avvolse, chiusi gli occhi e aspirai profondamente il profumo delle pagine e della carta stampata, che impregnava ogni singolo angolo di quell'immenso locale. Mi diressi al mio solito posto: nella saletta in cui si tenevano le raccolte di favole e leggende e i romanzi d'avventura c'erano degli ampi davanzali coperti di cuscini su cui la luce si riversava come cascate d'oro. Il giardino al di là del vetro sembrava appartenere a un mondo fantastico e rendeva ancora più incantato l'ambiente della biblioteca. Abbandonai la borsa e la giacca su una sedia vicina, mi arrampicai sul davanzale e mi immersi nella storia che stavo leggendo.
Quattro favole dei fratelli Grimm più tardi sentii i passi di qualcuno che si avvicinava.
- Ehi. - Il più grande dei Pevensie, quello che mi aveva aiutato il giorno prima, era vicino a me, con in mano un grosso libro e un'aria sorpresa dipinta sul bel viso.
- E-ehi. Che ci fai qui? -
"Domanda idiota, Beth." Mi dissi un istante più tardi.
- Sono alla ricerca di un po' di pace... a casa mia pare che abbiano tutti una gran voglia di litigare. -
- Voi quattro? Impossibile! -
- Mi piacerebbe avere una di quelle famiglie perfette che ci sono nei libri, - Rispose lui, indicando la raccolta di favole che stavo leggendo - Quelle in cui il re fa di tutto per rendere felice la sua regina... ma purtroppo siamo una famiglia normale. -
- A chi lo dici. - Mormorai, mordendomi la lingua un istante dopo, abbassando gli occhi per nascondere i miei pensieri cupi.
- Ehi, tutto a posto? - Domandò lui, facendo un passo verso di me.
Mi affrettai ad esclamare un "certo" con una voce che era tutto, tranne che certa. In quel momento un signore poco lontano ci gettò un'occhiataccia ed esclamò:
- Fate silenzio o no? Questa è una biblioteca, non una sala da tè! -
Ci zittimmo subito, ma non appena i nostri occhi si incrociarono un sorriso spuntò sulle labbra di entrambi. La voglia di ridere aumentava senza motivo, forse fomentata solo dal divieto che avevamo. Peter camuffò una risata con un sonoro colpo di tosse, tanto che il signore, scocciato, si alzò chiudendo il libro con un tonfo e ci lanciò un'occhiata feroce prima di andarsi a cercare un altro posto per leggere.
- A proposito, non ci siamo mai presentati davvero. - Disse il ragazzo, tendendomi una mano - Mi chiamo Peter Pevensie. -
- Elizabeth Graham. - Risposi.
- Stavo andando a casa, tu che fai? - Mi chiese lui.
Scoccai un'occhiata all'orologio del Big Ben, al di fuori della finestra, e sospirai. Erano quasi le sei, il che implicava che la mia presenza era richiesta a casa: la cena non si sarebbe preparata da sola.
- Vengo anch'io. - Risposi infilando il libro nella tracolla.
Sulla strada verso la stazione la sua voce riempì di nuovo il tragitto. Mi piaceva sentirlo parlare: era intelligente e sensibile, oltre che piuttosto divertente. In sua presenza mi stavo sciogliendo, e qualche volta intervenni nel discorso per più di una parola o due. Scoprii che aveva due anni più di me e che amava le stesse materie che amavo io, che era appassionato di romanzi d'avventura - Ivanhoe era il suo preferito - e che amava il teatro e i suoi fratelli più di ogni altra cosa. Mi sembrava un tipo molto responsabile e molto tranquillo, uno dei tanti "bravi ragazzi" che frequentavano il mio liceo e che mia mamma amava farmi notare quando andavamo in visita da qualche parente.
Due settimane più tardi il tempo pareva aver seguito le mie vicende familiari e contribuire al mio stato d'animo grigio: pioveva forte, di quella pioggia spessa e uniforme che ama tanto Londra.
La sera prima i miei genitori avevano litigato furiosamente, rinfacciandosi sempre le solite cose e urlandosi contro senza starsi a sentire nemmeno per sbaglio. Avevo lavato i piatti cercando di fare finta di non esistere, ma il mio stato d'animo non mi aveva fatto venire voglia di aprire i libri, così non avevo studiato. La mia voglia di andare a scuola era sotto i piedi e per di più mia sorella aveva deciso di portarsi dietro il malumore dei miei sfoggiando un muso lungo che faceva spaventare. Mi avviai alla stazione con la sensazione del peso sul cuore che avevo ogni volta che i miei genitori decidevano di non parlarsi e con la voglia dispirata di avere bisogno di una boccata di aria pura.
Il giorno successivo la situazione non era cambiata: la pioggia aveva deciso di allagare Londra, i miei avevano deciso di non smettere di essere arrabbiati e mia sorella aveva deciso di continuare con la sua politica di umore pessimo.
Dopo quattro giorni mi sentivo esplodere: ero una ragazza allegra, cercavo di vedere il bello e il buono in tutto e tutti e di far notare a tutti la meraviglia ancora nascosta nella città fumosa in cui abitavo... ma se c'era una cosa che mi abbatteva, quella era la mia situazione familiare. Di solito le cose non andavano troppo male, ma c'erano i periodi neri, e quelli mi distruggevano: non avevo voglia di studiare o di tornare a casa, non mi andava di parlare con nessuno nè di vedere gente. L'unica cosa che mi piaceva fare era andare in biblioteca, nascondermi nel mio angolino solitario e farmi abbracciare dal libro che stavo leggendo.
Il venerdì le mie lezioni finivano presto e, complice il sole che aveva deciso di farsi vedere di nuovo dopo una settimana di pioggia, decisi di fermarmi a leggere per l'intero pomeriggio, rifiutandomi di tornare a casa per adempiere ai miei cosiddetti "doveri": il bucato, la spesa e il riordino della biancheria potevano aspettare l'ora di cena. Potevano e dovevano. Mi rifugiai in biblioteca appena finite le lezioni, ma il pensiero del mucchio di cose da fare a casa mi assillava, tornandomi in mente nei momenti più impensati e impedendomi di godermi davvero la lettura: dopo solo poche pagine avevo riposto tutto nella borsa ed ero nel tiepido pomeriggio di marzo. Raggiunsi il cortile davanti alla scuola e mi sedetti su una panchina del giardino: sapevo che Peter Pevensie mi sarebbe venuto a cercare in biblioteca, come faceva praticamente ogni venerdì, ma non avevo nessuna voglia di vederlo o di parlare di sciocchezze come libri, leggende o favole.
A dire la verità sapevo di dover andare in stazione, prendere il treno e tornare a casa. Sapevo che dovevo sistemare la casa, preparare la cena e pregare con tutte le mie forze che finalmente quella mattina mia madre e mio padre avessero chiarito le loro controversie, riportando così un po' di sereno sul versante casalingo.
Il pensiero dei miei genitori che ancora non si parlavano mi fecero salire le lacrime agli occhi: pensare al clima di casa quando i genitori non erano in pace mi stringeva sempre il cuore in una stretta feroce. Mio padre che mi sgridava per ogni minima cosa o se ne andava a letto senza nemmeno finire la cena e mia madre che si ostinava nel suo mutismo, ignorando qualunque tentativo di distendere il clima.
Non era giusto. Non era quella la vita che volevo. No, proprio no.
Inaspettatamente, sentii una lacrima scivolare sulla mia guancia sinistra. Mi rifiutai di asciugarle, sarebbe stato come dire che stavo piangendo. La lasciai scivolare fino al mento, dove cadde disegnando un tondino scuro sulla manica del mio cappotto grigio.
All'improvviso, qualcuno si sedette accanto a me e mi appoggiò una mano sui capelli.
- Adesso non dirmi che va tutto bene. - Disse Peter, serio.
Scoppiai in singhiozzi senza preavviso, senza dire niente, e nascosi il viso tra le mani. Peter non mi domandò nulla: mi passò un braccio attorno alle spalle e mi strinse forte in un abbraccio. Io mi limitai a nascondere il viso contro il suo cappotto scuro senza curarmi dei singhiozzi che spezzavano il silenzio del giardino semivuoto e senza chiedermi che figura stessi facendo, che cosa Peter stesse pensando di me o cosa io volessi dire con quell'improvvisa crisi di pianto. Io, che mi sforzavo di non piangere mai.
E poi, improvvisamente, mi resi conto che qualcosa era cambiato.
Per prima cosa notai che la panchina su cui ero seduta era diventata all'improvviso molto bassa e molto scomoda, poi che non si sentiva il sottofondo confusionario del traffico di Londra, né lo sferragliare dei treni in lontananza: il cinguettio degli uccelli e il delicato frusciare delle foglie erano gli unici rumori attorno a me.
Istintivamente mi sciolsi dall'abbraccio di Peter e guardarmi attorno: e con mio enorme, immenso stupore dovetti constatare che non ero più a Londra.
Davanti a me si stendeva un prato smeraldino inondato dalla luce calda del sole, e dietro di me un boschetto ombreggiava il tronco caduto su cui eravamo seduti. Peter allontanò il suo braccio dalle mie spalle, si alzò e uscì dall'ombra dell'albero sopra di noi guardandosi attorno.
La sua voce vibrava di gioia mentre diceva:
- Siamo... siamo a Narnia. -
 
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Lyra‚
view post Posted on 26/1/2014, 16:23




II
È forse una favola?



Ci eravamo ritrovati all'improvviso in un posto sconosciuto e per di più (come se essersi trasportati altrove senza nemmeno essersi mossi non fosse già abbastanza assurdo) Peter sembrava non solo conoscere quel posto... ma anche essere incredibilmente felice di trovarsi lì.
Con il palmo della mano mi asciugai rapidamente le guance umide, mi alzai e lo raggiunsi nel prato, dove la luce calda del sole mi avvolse con il suo abbraccio e l'aria, limpida e tersa come un cristallo, mi accarezzò il viso.
- Dove hai detto che siamo? - Domandai guardandomi attorno.
- A Narnia! Io... io non capisco come facciamo ad esserci arrivati e nemmeno perché siamo qui, ma... -
- Io vi ho chiamati. - Disse una voce profonda.
Non è che proprio parlò... più che altro la sentii risuonare nella mia testa, echeggiando nella mia mente per qualche istante mentre il mio cuore accelerava bruscamente i battiti, emozionato per qualcosa che non riuscivo a capire. C'erano troppe cose assurde, in quella situazione. Troppe. Volevo andare a casa.
In quel momento dagli alberi di fronte a noi comparve un leone. Era una grossa bestia dorata, dalla criniera fulva che sembrava scintillare d'oro, bronzo e rame... e avanzava guardandoci fisso con il passo silenzioso dei felini. Si dirigeva verso di noi e feci per allontanarmi, muovendomi lentamente all'indietro, quando il leone spiccò un balzo. Istintivamente gridai, coprendomi il viso con le mani, ma quando mi accorsi di essere ancora in piedi sbirciai tra le dita che mi coprivano gli occhi.
E non solo vidi che il leone si era fermato davanti a noi, immobile, guardandoci con i suoi grandi occhi castani... ma Peter era caduto in ginocchio davanti a lui.
- Alzati, figliolo. Sappiamo entrambi che siamo felici di rincontrarci. - Disse il leone, mentre la sua voce calda si allargava nella mia testa e la bestia muoveva appena le orecchie. Peter si rialzò e sorrise, accennando un inchino.
- Sono davvero felice di essere qui, Aslan. - Disse.
E in quel momento, guardandolo, mi accorsi che Peter sembrava diverso: qualcosa in lui era cambiato... anche se all'apparenza era sempre lo stesso. Continuava ad essere lo studente in divisa scolastica di sempre, ma aveva come un'aria fuori dal comune, come se l'aria di quel posto avesse reso più trasparente il suo corpo e adesso risplendesse dal di dentro... come se fosse avvolto di una magia sottile come un profumo delicato.
Non ci sono parole per descriverla, oppure per descrivere come mi fece sentire fare quella scoperta. Ma, qualunque cosa fosse, mi colpì profondamente.
- Avvicinati, figlia di Eva. - Disse il leone.
Capii che si stava rivolgendo a me e tutta la mia paura risorse all'improvviso: come poteva un leone parlare? e un leone poteva davvero essere così grande? E poi... cos'era Narnia? Io volevo tornare a casa! Istintivamente feci un altro cauto passo indietro, trattenendo l'istinto di gridare ancora per paura di scatenarlo contro di me. Non doveva essere un leone normale e temevo un po' l'ira di una bestia straordinaria ancora più di quanto temessi quella di un'animale ordinario.
Non riuscii a indietreggiare molto, però. Qualcosa, nel suo caldo sguardo e nel modo in cui mi fissava mi impediva di avere davvero paura di lui.
- Non avere paura, bambina. - Disse il leone, come leggendo i miei pensieri - So quello che ti sta accadendo e quello di cui hai paura, ma non c'è tempo per il timore: ora devi ascoltarmi. Dovete ascoltarmi tutti e due: avete una missione molto importante, ne va del destino di Narnia. -
- Cosa dobbiamo fare? - Domandò Peter.
- Non ve lo spiegherò ora. Andate a Cair Paravel, re Aldian vi aspetta: lui vi dirà tutto quello che è necessario sapere. Lascio la mia terra in buone mani, abbiatene cura. -
Il leone si voltò e fece per allontanarsi, quando riguardagnai la voce.
- Io... io ho paura. - Mormorai.
Ero in un posto sconosciuto, lontano chilometri dalla mia famiglia e lasciata a me stessa, sola, senza nessuno. Come avrei fatto? E la mia famiglia? Non potevo lasciarli! Avevano bisogno di qualcuno che ricordasse loro come ci si voleva bene, che rammentasse loro la pazienza, che cercasse di calmare gli animi... non potevo stare lì! Improvvisamente l'angoscia mi strinse il cuore e mi ritrovai con le mani strette l'una nell'altra e gli occhi di nuovo lucidi.
Il leone si voltò e i suoi occhi buoni mi sorrisero.
- Ti conosco e so ciò che desideri, ma non è ciò di cui c'è bisogno ora. Ora il tuo dovere è qui. E ogni volta che avrai paura, ricorda che hai un ottimo compagno d'avventura, fidati di lui... e del tuo cuore. -
Alzai gli occhi verso Peter, che li abbassò verso di me stirando un angolo delle labbra in un sorriso. I suoi occhi scintillavano e avevano lo stesso colore del cielo che splendeva, turchese e limpido, sopra di noi. Quando mi voltai di nuovo verso la radura per replicare, il leone era scomparso.
Con il fiato corto, guardai il prato vuoto e poi di nuovo Peter.
- Va e viene come vuole. È lui il vero Re, qui. - Disse solamente. - Vieni, andiamo a Cair Paravel. -
Le mie gambe però sembravano di piombo, aggrappate all'erba e completamente prive della forza di sollevarsi per camminare. O forse ero io a non voler lasciare quell'unico appiglio vagamente simile a quello presente nel mondo che mi ero lasciata alle spalle. Peter si accorse che non lo stavo seguendo e si voltò, tornando verso di me. Mi si avvicinò, mi posò le mani sulle spalle e si abbassò quel tanto che bastava per guardarmi negli occhi.
- Come ti senti? -
- Ho paura. -
- Lo caspico. La prima volta che sono arrivato qui ero a dir poco terrorizzato. Ma se Aslan ha detto che Narnia ha bisogno di noi, dobbiamo fare il nostro dovere. E se non riesci a fidarti di un leone parlante - aggiunse, mentre un sorriso gli faceva brillare gli occhi, poi continuò - forse puoi provare a fidarti di me. Torneremo a casa sani e salvi. -
- Ma io devo tornarci subito! - Esclamai.
Peter fece scivolare le mani lungo le maniche della mia camicia e strinse forte le mie mani gelate nelle sue, grandi e calde. E fissandomi negli occhi con intensità mi sussurrò:
- Torneremo presto. Promesso. -
Avevo annuito prima ancora di capire che cosa stava a significare il mio assenso. Peter mi sorrise, mi strinse le mani e poi si voltò a guardare il sole.
- Dunque, fammi pensare. Cair Paravel dev'essere da quella parte. Seguimi. -
Mentre camminavamo verso la nostra meta e la rigogliosa vegetazione di Narnia ci abbracciava da ogni lato, fremendo, frusciando e stormendo, Peter mi raccontò che lui e i suoi fratelli erano già stati due volte a Narnia: la prima volta era stato durante la guerra, quando erano passati attraverso un passaggio in un grosso armadio e avevano ricevuto il compito di scacciare la Strega Bianca che aveva portato a Narnia un inverno senza fine; la seconda volta era stato alcuni anni prima, quando invece che sul treno per andare a scuola si erano ritrovati su una bellissima spiaggia: in quell'occasione avevano dovuto aiutare il legittimo erede al trono, Caspian, a rivendicare il suo posto. Con la sua parlantina spigliata e intelligente mi spiegò che a Narnia gli animali, anche se non tutti, parlavano, e che il loro parere era tenuto in grande considerazione. Non mi ero ancora ripresa da quella informazione quando mi disse che la bestia che ci aveva accolti non era uno dei tanti leoni di Narnia... ma era Aslan, il Grande Leone, colui che aveva creato Narnia e che la custodiva. Nessuno sapeva dove lui fosse quando non si faceva vedere e non compariva a comando: vederlo era un grande privilegio e non a tutti era capitato nella loro vita.
- È... è il Dio di questo posto? - domandai, tra lo stupito e lo scettico.
- In un certo senso. - Rispose Peter con un sorriso.
Più mi guardavo intorno, più Narnia mi piaceva. Se riuscivo a mettere da parte la paura e l'ansia per quello che poteva succedere a casa in mia assenza, quel posto era davvero incantevole: la natura era fresca e rigogliosa e si moltiplicava e fioriva in ogni angolo, sotto ogni albero, in ogni fessura tra le rocce. Gli uccelli cantavano sopra le nostre teste, il sole splendeva allegramente e perfino l'aria sembrava più trasparente e limpida di quella di Londra.
Dopo qualche ora di cammino ci fermammo in una radura dove un ruscello scorreva gorgogliando allegro: mi chinai a bere quell'acqua che pareva di seta, poi cedetti alla tentazione e togliendo scarpe e calzettoni tuffai i piedi nel fiume. Peter mi imitò, sedendosi accanto a me sulla riva del torrente e alzando gli occhi per guardare i giochi di luce che il sole intrecciava tra le foglie sopra di noi.
Aveva fatto un paio di risvolti alle maniche della camicia e allentato la cravatta e mentre guardava in alto il sole calante gli accarezzava il viso e strappava riflessi d'oro ai suoi capelli.
Fu in quel momento che realizzai quanto Peter fosse incredibilmente bello. Chissà, forse faceva parte della magia che sembrava irradiare da lui da quando eravamo arrivati a Narnia, forse il non vederlo irrigidito da sciarpe e cappotti, o forse era l'aria pulita di quel mondo a renderlo così affascinante. Abbassò gli occhi, sentendosi osservato, e io distolsi lo sguardo imbarazzata, affrettandomi a infilare di nuovo calze e scarpe per ricominciare la nostra passeggiata.
Mentre il sole iniziava a declinare e a infuocare il cielo, gli alberi si diradarono e ben presto davanti a noi si stagliò un enorme promontorio su cui luccicava un castello di pietra bianca. Dietro di esso, il mare più blu che avessi mai visto.
- Casa. - Sussurrò Peter.
Se la passeggiata nel bosco era stata piacevole, non si poteva dire lo stesso di quella che si inerpicava su per il promontorio: Peter mi anticipava sul sentiero ripido descrivendo la bellezza del posto dove stavamo andando e trascinandosi dietro una ragazzina affannata:
- Ti farò vedere il giardino che Lucy e Susan hanno ordinato di costruire per loro a picco sul mare... e poi voglio portarti nella Sala del Trono, sarà bellissima, lo so! E ti porterò a passeggiare sulle mura, quando è notte e il cielo risplende di migliaia di stelle E poi ovviamente ti porterò alla Tavola di Pietra... e se vorrai ti insegnerò a cavalcare! È un vero peccato che non sia più in vita Caspian, sono sicuro che ti sarebbe piaciuto... ma sono così contento che abbia ricostruito Cair Paravel esattamente com'era! Certo che qui saranno passati almeno 200 anni da quando sono andato via... -
- Ma non hai detto che è stato solo un paio d'anni fa? - Domandai io, approfittando del suo istante di riflessione per riprendere fiato.
- Sì, ma qui il tempo va per conto suo. - Esclamò Peter, continuando col suo ritmo da maratona e impedendomi di fargli altre domande.
Poco dopo ci ritrovammo davanti al gigantesco portone scuro del castello.
- Chi è là? Chi siete? - Domandò una guardia di vedetta dal tono minaccioso.
- Siamo qui per parlare con re Aldian. Siamo un figlio di Adamo e una figlia di Eva, Aslan ci ha mandati! - Gridò Peter in risposta.
Il portone di legno massiccio si aprì ed entrammo nella grande corte: mi guardavo intorno intimorita dalla grandezza dell'edificio e senza il coraggio di allontanarmi più del necessario dal fianco di Peter.
Un uomo dai capelli rossi striati d'argento si trovava al centro del cortile e ci venne incontro a braccia aperte: sul capo aveva una corona d'oro e capii subito che era re Aldian. Peter si mise in ginocchio davanti a lui e io lo imitaii immediatamente, pensando che fare quello che faceva lui era il modo migliore per non sbagliare.
- Oh, in nome di Aslan... re Peter, siete proprio voi? Che sia lodato, non potevo chiedere un aiuto migliore! Sono così lieto che abbiate risposto alla chiamata, lasciate che vi ringrazia nome di tutta Narnia. Ma alzatevi, alzatevi! Siete i benvenuti! Io sono re Aldian, nipote di Celdian, discendente di re Caspian X. -
Il re parlava con una tale velocità da rendermi impossibile seguire la scena: un discendente di Caspian? Allora il tempo scorreva veramente in modo diverso, in quel posto! E poi...
"Aspetta un attimo. Peter è stato veramente chiamato re?" Mi domandai, scrutando Peter con occhi indagatori. E di quale chiamata stava parlando? Noi non avevamo risposto proprio a niente!
- E questa graziosa damigella chi è? - Disse Aldian, avvicinandosi a me e interrompendo i miei pensieri confusi.
- Lady Elizabeth, è una mia amica. - Rispose Peter.
Il re mi si avvicinò e chinò il capo in segno di rispetto, sorridendomi con cortesia.
- È un piacere conoscervi, lady Elizabeth. Siete la benvenuta. Sarete molto stanchi e oramai è ora di cena. Colin ed Emeraude vi accompagneranno nelle vostre stanze, vi porteranno abiti puliti e vi scorteranno nella sala del trono. Avremo tempo di parlare del perchè siete qui dopo la cena. -
Una ragazza più o meno della mia età con una treccia color oro avvolta attorno alla testa mi si avvicinò, fece una piccola riverenza e poi mi fece cenno di seguirla. Aprii la bocca per dire a Peter di non allontanarsi troppo, ma lui mi aveva salutato con un cenno del capo, facendomi segno che ci saremmo rivisti più tardi. Terrorizzata e incuriosita insieme, seguii Emeraude all'interno del castello.
Pochi minuti dopo ero in una stanza stupenda, sobria e lussuosa al tempo stesso, immersa in una vasca color bronzo colma di un'acqua calda e profumatissima. Lasciai che per un momento i pensieri negativi uscissero dalla mia testa e pensai che, se comunque non potevo andare via, il minimo che potevo fare era cercare di concentrarmi su quello che la situazione mi stava offrendo: avevo sempre sognato di essere una principessa, e in quel momento ci ero quasi arrivata.
Se non altro stavo vivendo in una favola.
Dopo il bagno Emeraude insistette per aiutarmi ad indossare l'abito che aveva preparato per me e poi volle a tutti i costi acconciarmi in una crocchia, arricciando i ciuffi che erano troppo corti per essere intrecciati. Quando si allontanò chiedendo permesso per anticiparmi nella sala dei banchetti, la salutai con un sospiro di sollievo: volevo cinque minuti da sola per rendermi conto della situazione. Mi alzai e presi confidenza con l'ampia gonna color pervinca prima di avvicinarmi allo specchio in piedi in un angolo della stanza. E non appena vidi la mia immagine riflessa fui assalita da un'ondata di delusione: mi ero immaginata decine di volte con un abito principesco addosso, e adesso che lo indossavo era terribile.
Le maniche strette mi facevano sembrare le braccia due salsicciotti e la gonna lunga e gonfia mi dava l'aria di una grossa abat-jour... senza contare che mi sentivo anche piuttosto a disagio, nel vedermi in un abito così diverso da quelli che portavo ogni giorno. Mi sentivo più brutta e goffa che mai, altro che lady Elizabeth.
Qualcuno bussò, poi la porta si socchiuse.
- Sono Peter, posso entrare? -
- Sì, sì. - Dissi io: l'idea di avere qualcuno con cui esprimere la mia delusione mi faceva sentire meglio. - Guarda come mi hanno conc... -
Ma quando posai i miei occhi su di lui le parole mi morirono in gola: il mio cuore si fermò e non riuscii a fare altro che rimanere a bocca aperta davanti al ragazzo... anzi, al principe, che mi stava davanti. Peter indossava un paio di stivali neri, pantaloni blu scuro e camicia blu scuro sotto ad una casacca nera fermata in vita da una cintura di pelle. I suoi capelli scintillavano come oro fuso e i suoi occhi azzurri mi guardavano brillando. Sembrava uscito dal libro dei Cavalieri della Tavola rotonda che avevo letto prima di Natale, solo che era molto, davvero molto più bello.
- Sei... sei... - Esclamai con un filo di voce, senza riuscire a trovare un aggettivo per descriverlo.
- Mi stavo giusto chiedendo cosa avresti pensato di questi vestiti. Immagino che tu sia felice di vestirti come un personaggio delle storie che ami tanto. - Esclamò lui, sorridendo al mio stupore e avvicinandosi a me dando sfoggio di una camminata ancora più fluida ed elegante di quella che aveva a casa.
- Oh, avanti... tu hai l'aria di un cavaliere, io di un'abat-jour! - Sbottai guardandomi ancora allo specchio e sentendomi centomila volte più goffa, vicino a lui.
Peter non disse niente, ma sentivo il suo sguardo su di me e iniziavo a sentirmi terribilmente a disagio.
- Volevi dirmi qualcosa? - Risposi bruscamente.
- Hanno chiamato per la cena e ti volevo accompagnare. Pensavo avessi bisogno di una guida per non perderti. -
- Grazie, è un pensiero gentile. E poi se inciamperò nell'orlo dell'abito e cadrò dalle scale potrai assistere alla scena. - Dissi io irritata, calpestando per l'ennesima volta l'orlo del vestito mentre cercavo di muoversi.
Peter non disse niente, ma mi pentii immediatamente di quello che avevo detto.
- Oh, mi dispiace, scusami tanto. Solo... solo che io pensavo di sentirmi una principessa, invece con questo vestito mi sento... mi sento solo così brutta. - Dissi abbassando lo sguardo.
Peter fece scivolare la sua mano sul mio braccio, in un tocco così leggero che mi chiesi se mi avesse sfiorato davvero.
- Elie... posso chiamarti così? -
- Ma-ma certo. - Risposi, abbassando gli occhi per mascherare l'imbarazzo: nessuno mi aveva mai chiamato Elie.
- Le favole sono molto diverse dalla vita di Narnia, anche se a prima vista possono sembrare la stessa cosa. -
- Capisco. -
- Ma tu sembri uscita comunque da un libro di favole. -
Alzai gli occhi, e mi accorsi che stava sorridendo. Mi sforzai di fare lo stesso, anche se con lo stomaco chiuso dalla paura, e Peter mi porse il braccio.
- Scendiamo a cena, adesso. - Disse.
Passai il mio braccio sotto il suo e presi un bel respiro, sforzandomi di cercare di vivere quella situazione nel modo migliore possibile.
La sala dei banchetti era un salone immenso, con due giganteschi camini ai due lati del lungo tavolo ricolmo di ogni ben di Dio: dolci e arrosti, pane appena sfornato, con le uvette, i pinoli e i canditi. C'erano zuppe fumanti, insalate di frutta, di verdura e perfino di fiori. Grosse brocche di acqua cristallina e boccali di sidro di mele dorato rendevano la tavola ancora più invitante, scintillando tra le porcellane. Al tavolo erano seduti re Aldian, a capotavola, e i suoi due figli, due ragazzi sui vent'anni.
- Accomodatevi, cari ospiti. E godete dell'accoglienza di Cair Paravel. - Disse il re, invitandoci a sedere. Fu solo quando il profumo del cibo mi avvolse che mi resi conto di quanto tremendamente avessi fame.
 
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Lyra‚
view post Posted on 11/3/2014, 22:11




III
Una nuova avventura



Quando la cena ebbe termine, il re ci condusse in una stanza più piccola e accogliente, dove un fuoco scoppiettava allegro in un caminetto di pietra bianca lucente. L'arredo era sobrio ed elegante insieme e ricordava molto le illustrazioni dei miei libri di favole, tanto che quando fu invitata a sedermi lo feci quasi con rispetto.
Peter si sedette accanto a me, mentre i due figli del re si sedettero su un'altro divanetto di fronte al nostro: il maggiore si chiamava Alderian e aveva diversi anni più di me. Era scuro di capelli e piuttosto silenzioso, ma i suoi occhi chiari trasmettevano intelligenza e serietà: ero sicura che sotto la sua apparenza schiva si nascondesse un gran cuore. Il secondo si chiamava Lexander e aveva un anno meno di me: rosso di capelli, con intensi occhi neri e il viso aperto e sorridente, intratteneva tutti con i racconti delle sue peripezie e delle sue avventure. Mi piaceva di più di suo fratello: i suoi modi mi mettevano meno in soggezione di quelli di Alderian... e Dio solo sapeva quanto avessi bisogno di sentirmi meno a disagio, in quel posto sconosciuto con indosso abiti a me del tutto estranei. Quando re Aldian si fu accomodato su uno scranno dall'alto schienale proprio di fronte al fuoco, intrecciò le dita delle mani e ci guardò con aria grave:
- Credo sia giunto il momento di dirvi perchè siete qui. -
Deglutii, agitata, e lanciai uno sguardo a Peter: con gli occhi fieri e la testa alta, stava seduto al mio fianco come un capitano in attesa di ordini.
- Dovete sapere che qualche centinaio d'anni fa è stato ritrovato, nella terra di Archen, un prezioso cimelio: una coppa di terracotta intarsiata su cui è raffigurata la creazione di Narnia. I re di Archen l'hanno a lungo custodito come oggetto storico, ma durante un particolare periodo di siccità si sono resi conto che poteva essere utilizzato per rifornire di acqua tutte le genti, dato che si era riempito di un acqua che non si esauriva mai. Hanno consegnato il calice ai saggi, e quando essi hanno decretato che era un oggetto contenente un pizzico della magia che il Grande Leone ha utilizzato quando ha creato il nostro mondo hanno pensato che dovesse essere conservato in un posto più sicuro... e l'hanno portato qui a Cair Paravel. Il Calice della Creazione - così l'abbiamo chiamato - ha poteri straordinari: realizza i desideri di chi lo possiede. Il suo potere è infinito, ma utilizzabile da chiunque: se cadesse nelle mani sbagliate e chi lo ha rubato ne conoscesse il potenziale, potrebbe scatenare forze di distruzione incredibili. Aslan ci risparmi questa eventualità. - Disse Aldian con voce rotta, fermandosi con lo sguardo fisso alle fiamme che danzavano nel camino. Fu Alderian a riprendere il discorso.
- Abbiamo portato il Calice della Creazione al Tempio della Tavola Spezzata, e lì l'abbiamo fatto custodire da guardie animali e umane. La sorveglianza è stretta, e affidata solo a uomini fidati. Qualche giorno fa una guardia è entrata a controllare e si è accorta che la nicchia era vuota. Hanno rubato il Calice. -
- Rubato? Come hanno potuto? Le guardie non si sono accorte di nulla? - Chiese Peter.
- No. -
- Il vero pericolo arriva però da Calormen: tre giorni fa il loro Sommo Sciamano ci ha mandato una missiva: o ci arrendiamo a loro o raderanno al suolo Cair Paravel e tutto il suo regno. - Aggiunse il re.
Vidi Peter stringere i pugni e i suoi occhi azzurri saettare verso il re:
- Pensate che abbiano rubato loro il Calice? - Domandò.
- Non lo pensiamo. Lo sappiamo. - Rispose Lexander - Quando abbiamo scoperto cos'era accaduto, abbiamo mandato nostri messaggeri in tutto il regno, chiedendo a chiunque di comunicare qualsiasi evento strano che fosse stato notato. Una famiglia di giovani fauni ci ha riferito che il loro bambino era scomparso proprio nella settimana precedente alla sparizione del Calice. Interrogato, il piccolo non ha saputo dirci dov'era stato e cosa aveva fatto. -
- Dovete sapere che gli Stregoni di Calormen sono abili nel manipolare la mente. L'avranno incantato e se ne saranno serviti per portare via il Calice. -
- Ma perchè... Perchè un bambino? - Chiesi.
- Solo una persona dal cuore puro può prendere il Calice tra le mani senza impazzire. Un uomo a capo di un esercito non potrebbe nemmeno sfiorarlo... e nemmeno un re, con tutte le decisioni difficili che deve prendere. Ho vegliato giorno e notte alla Tavola di Pietra, chiedendo ad Aslan un aiuto... e siete arrivati voi. -
- Ma sire, vedete anche voi che non siamo più bambini. - Intervenne Peter.
- Se Aslan vi ha mandato, ritiene che il vostro cuore sia abbastanza trasparente da poter prendere il Calice. E io ho fede in Aslan. -
- Anche noi. - Rispose Peter, lanciandomi un'occhiata complice. - Da dove possiamo cominciare? -
- Ora potreste cominciare ad andare a letto. - Disse il re, alzandosi. Improvvisamente sembrava molto più vecchio. - Domani, quando sarete riposati, vi spiegherò cosa abbiamo in mente. -
Ci congedò con un cenno del capo. Peter si alzò, fece un rapido inchino ai due principi e al re e poi mi porse il braccio. Con una goffissima riverenza salutai anch'io e feci scivolare il mio braccio sotto quello di Peter, sentendomi meglio solo quando la sua stretta solida mi guidò fuori dalla sala.
Respirai l'aria fredda del corridoio cercando di capacitarmi di quello che mi stava succedendo. Peter non disse nulla, lasciandomi ragionare con calma sulla situazione. Quando raggiungemmo la porta della mia stanza, Peter mi lasciò andare e mi sorrise.
- Cerca di dormire. - Mi disse. - Buonanotte.
- Buonanotte. - Disse io, posando una mano sulla maniglia della porta. All'improvviso mi voltai e diedi voce alla domanda che morivo dalla voglia di fare dall'inizio della cena. - Aspetta. Ma... ma tu qui... qui sei davvero un re? -
Peter sorrise, abbassando gli occhi con un'aria imbarazzata che non gli si addiceva. Fece un passo verso di me guardandomi con quei suoi incredibili occhi azzurri e mi si avvicinò, parlando con un sussurro.
- Quando siamo venuti qui la prima volta e abbiamo sconfitto Jadis, siamo stati eletti re e regine di Narnia. Ma al momento io non sono re. Mi chiamano così in segno di rispetto, ma la corona è sulla testa di Aldian. -
Avevo in mente moltissimi commenti, a quella frase, ma non riuscii a pronunciarne nemmeno uno. Abbassai lo sguardo sulle mie braccia a salsiccia che stringevano la gonna gonfia del vestito e strinsi la maniglia della porta, spalancandola davanti a me.
- Ci vediamo domattina. - Dissi solamente.

La mattina dopo Emeraude venne a svegliarmi aprendo le tende e facendo entrare il sole di Narnia in tutto il suo caldo splendore.
- Re Peter mi ha chiesto di venirvi a svegliare, ha detto che vuole portarvi a vedere Narnia! - Esclamò allegramente - Vi lascio qui l'abito pulito e la colazione, se ha bisogno di qualcosa sarò subito da lei! - Disse allegramente, con la treccia bionda ondeggiante sulle spalle e il solito sorriso luminoso dipinto sul viso.
Quando si fu chiusa la porta alle spalle mi misi a sedere nel grande letto a baldacchino sfregandomi gli occhi per cancellare le ultime tracce di sonno. Sul tavolino sotto la finestra stava un vassoio pieno di pane e marmellata, con una brocca di latte fumante... e mi venne l'acquolina in bocca. Scesi dal letto inciampando nelle coperte e nell'orlo della camicia da notte e mi sedetti al tavolino, godendomi la vista sul mare di Cair Paravel mentre mi saziavo di pane e latte.
Avevo appena terminato di mangiare, quando mi accorsi che sulla spalliera della mia sedia stava l'abito che Emeraude aveva preparato per me. Ebbi un attimo di intenso rifiuto, chiedendomi dove fosse finita la mia umile divisa scolastica, ma poi lo osservai meglio: era lungo fino alle caviglie, di spesso panno blu scuro arabescato di grigio e azzurro. Era senza maniche, e sotto di esso Emeraude aveva scelto una casacca bianca ricamata di blu attorno ai polsi e al collo, dove si chiudeva con un intreccio di nastri blu. Lo indossai da sola, compiacendomi del fatto di aver già preso confidenza con quegli abiti così insoliti, e mi specchiai: la gonna che non si gonfiava attorno al mio corpo e le maniche ricamate che cadevano in morbide onde sulle mie mani mi facevano sentire decisamente meglio.
Recuperando pettine e nastri, ravviai i miei capelli ai lati del viso, raccogliendoli nei miei consueti codini di tutti i giorni: se riuscivo a non guardarmi al di sotto del collo, sembravo quasi la stessa Elizabeth che vedevo nello specchio di Londra.
Peter mi aspettava nella corte di Cair Paravel: era vestito di grigio e marrone e i suoi capelli dorati brillavano come non mai sotto quel sole stupendo.
- Buongiorno, Elie. Hai dormito bene? -
- Bene, sì. -
- Vieni, ti faccio vedere il tuo cavallo. - Mi disse emozionato, anticipandomi in un corridoio sulla sinistra.
- Cavallo? Io non ho mai cavalcato prima... e non ho intenzione di cominciare. - Dissi, mentre lo seguivo piena di ansia.
L'odore di fieno che aleggiava nelle stalle era intenso e pungente, e Peter raggiunse un box da cui spuntava la testa di un cavallo marrone, la cui folta criniera aveva il colore chiaro e puro della sabbia. I suoi occhi ambrati e intelligenti mi guardarono avvicinarmi mentre Peter le accarezzava il muso.
- Lei è Elizabeth. -
- Non sembra molto entusiasta. - Sentenziò il cavallo.
La sua voce femminile era intensa e rotonda e io sbattei le ciglia, avvicinandomi di un passo.
- Prego? - Domandai.
- In quale tronco cavo l'avete trovata, re Peter? Non sembra di queste parti. - Disse la giumenta, ridendo.
- Non prenderti gioco di lei, Luce. È la prima volta che mette piede a Narnia. -
Luce scrollò la criniera, uscendo dal box e avvicinandosi a me. Spaventata dalla sua stazza e dal suo eloquio, rimasi immobile finchè non mi diede un buffetto sulla spalla con il muso.
- È un po' spaesata, ma mi piace. - Fu la sentenza della giumenta.
Peter mi si avvicinò, porgendomi sella e briglie.
- Và da Clinus, ti insegnerà a sellarla. - Disse con un sorriso, accennando al centauro pezzato che faceva da stalliere. - Luce è una cavalla tranquilla e intelligente. Imparerai in fretta. - Disse lui.
Come in un sogno presi le cose che mi tendeva e feci quello che mi aveva detto. Fu solo quando mi ritrovai fuori dalle stalle con Luce sellata e imbrigliata e Peter che portava al passo un destriero bianchissimo che mi resi conto di quello che mi stava capitando. Peter salì in groppa a Vento, il suo cavallo, mostrandomi come si faceva.
Sembrava facile, ma al mio primo tentativo riuscii solo ad inciampare nell'orlo del mio abito, sbattendo il naso contro la sella e sentendomi piuttosto sciocca.
Peter smontò e mi mostrò come fare, lentamente e con pazienza, ignorando i miei errori e le mie guance paonazze per l'imbarazzo. Al quarto tentativo le sue mani calde sulla vita mi sollevarono quel tanto che bastava da farmi salire in groppa a Luce. Presi le briglie stupendomi della mia altezza da terra. Peter salì sul suo cavallo con una grazia degna di un re, e uscimmo al passo da Cair Paravel, avviandoci verso il bosco che avevamo lasciato il giorno precedente.
- Se svoltiamo a destra immediatamente arriveremo presto al mare. - Disse Vento.
Mi sarei mai abituata a sentire gli animali parlare? Probabilmente no.
- Vorrei andare alla Tavola di Pietra, prima. - Rispose Peter.
- Come preferite, sire. - Disse con un sorriso.
La passeggiata nel bosco fu piacevole, anche se le mie gambe e la mia schiena, estranee alla posizione in cui ero, in breve tempo gridarono di dolore. Peter mi aiutò a scendere e continuammo a camminare sul tappeto di erba e aghi di pino, scambiandoci chiacchiere e commenti quasi sottovoce, godendoci il respiro della foresta e il richiamo degli animali.
Lentamente il bosco divenne più rado e grandi prati presero il posto dei tronchi d'albero.
- Manca molto? - Domandai, iniziando a sentire la stanchezza.
- No, affatto. Seguimi. - Disse Peter, facendomi strada fuori dal bosco, al di là del quale si apriva una enorme prateria, dominata da una piccola collina ricoperta d'erba di un verde così vivido da non sembrare reale.
Attraversata la pianura, raggiungemmo una entrata ai piedi del clivo, invisibile dal bosco: quando entrammo, rimasi letteralmente a bocca aperta, guardando tutto con occhi spalancati e pieni di stupore. Eravamo in un grande tempio sotto una volta di terra e roccia, dove l'unica luce era quella delle torce e dei focolari accesi. Al centro dell'enorme sala rotonda c'era una tavola di pietra spezzata in due.
Si respirava una tale magia, in quel luogo, che quando parlai lo feci istintivamente sottovoce.
- Era qui che era custodito il Calice? -
- Sì. In una nicchia al di là della Tavola. - Rispose Peter in un sussurro. - Qui è stata spezzata l'Antica Magia... qui Aslan è stato ucciso innocente ed è tornato in vita. -
Nel silenzio mi lasciai pervadere dalla sensazione di pace che quel posto trasmetteva quel posto, respirando l'aria fredda come se fosse stata un balsamo per tutte le ferite che mi portavo dentro. All'improvviso Peter ruppe il silenzio:
- Ti ho portata qui perchè potessi capire che è importante per Narnia proteggere la sua magia. Non possono permettersi di essere schiavi, lo sono stati troppe volte. Puoi rinunciare, se vuoi... ma volevo farti sentire quanto sarebbe giusto combattere questa battaglia. -
- Lo sapevo già. - Risposi con sincerità.
Era la verità: dal momento in cui Aslan mi aveva guardato negli occhi, dentro di me si era accesa una candela. Era più simile a un minuscolo lumicino, ma sentivo la luce e il calore ardere dentro di me sotto il timore, l'ansia, la paura e il disagio. Sentivo che mi aveva dato qualcosa: non potevo non dargli niente in cambio.
Stupito dalle mie parole, Peter si voltò a guardarmi negli occhi.
- Davvero? - Domandò.
- Davvero. - Risposi io, seria.
I suoi occhi e le sue labbra mi sorrisero.
- Sei mai stata al mare? -
- No, mai. -
- Allora ti ci devo portare. -
Quando raggiungemmo Luce e Vento, Peter comunicò al suo cavallo la nostra meta.
- È quasi ora di pranzo. Dovremo fare molto in fretta. - Disse Peter.
- Allora è meglio accelerare il passo. - Sentenziò Vento.
- Sei pronta a una bella cavalcata? - Disse Peter, sorridendomi.
- Io no... non credo. -
- Oh, avanti... è da decenni che non mi faccio una corsa degna di questo nome! - Esclamò Luce, e all'improvviso partì al galoppo.
Mi tenni stretta con le ginocchia alla sella e strinsi le briglie, senza tirarle a me per la paura che Luce potesse imbizzarrirsi. Il vento mi frustava la faccia e l'aria mi faceva lacrimare gli occhi, mentre il paesaggio attorno a me si riduceva a un turbine di azzurri, verdi e marroni. Dopo quelle che mi sembrarono ore di agonia, arrivammo al limitare del bosco e i colori che vedevo divennero due indistinte macchie di azzurro e bianco.
Luce rallentò e Vento ci raggiunse al galoppo, mentre i suoi zoccoli affondavano nella sabbia dorata della riva del mare. Peter fece fermare il suo cavallo proprio accanto a noi e smontò da cavallo.
Poi vide che ero pallida di paura e mi si avvicinò con aria preoccupata.
- Ti senti bene? - Domandò.
Meccanicamente, scesi da cavallo lasciando le briglie... ma appena toccai terra le ginocchia non mi ressero. Peter mi prese per la vita con un braccio e mi trattenne contro di lui, impedendomi di finire nella sabbia.
- Sì... sì... dammi solo un minuto... - Mormorai aggrappata alla sua casacca, nel disperato tentativo di tornare padrona del mio respiro e dei miei pensieri.
- Non ho saputo trattenermi. Perdonatemi, sire. - Disse Luce.
- Non preoccuparti. - Disse Peter, allontanandomi quel tanto che bastava per guardarmi in faccia. - Come ti senti? -
- Sto... sto già meglio. - Mormorai, mettendomi dritta sulle gambe ancora malferme. e scrollando i capelli. - Dove siamo? -
- Guarda tu stessa. - Disse lui, tenendomi per un braccio e scostandosi, così che i miei occhi potessero vedere l'immensa bellezza del mare di fronte a me. L'avevo visto nelle riviste e nelle immagini, e anche nei rari televisori che c'erano nei locali pubblici più frequentati di Londra, ma mai dal vivo.
Sussurrava e respirava, mentre luccicava sotto il sole. Sembrava acqua e seta, zaffiri e diamanti. Mi mossi traballante verso la riva, affondando fino alle caviglie nella sabbia dorata. Raggiunsi il punto in cui le onde si allargavano bagnando la spiaggia e mi fermai, cercando di assaporare ogni dettaglio di quell'attimo di incredibile perfezione che pensavo non si sarebbe mai avverato, nella mia vita.
Peter mi raggiunse e si sedette sulla sabbia: il sole era alto e spandeva il suo tepore nell'aria mentre il mare riempiva la brezza con il suo profumo, il silenzio era riempito solo dai sussurri dell'acqua e dalle rare strida degli uccelli marini. Le montagne disegnavano un confine argento e bianco all'orizzonte e non ci poteva essere niente di più da desiderare, in un momento come quello.
Mi lasciai cadere sulla sabbia morbida e abbracciai le ginocchia, avvicinandole al petto, rendendomi conto che un momento come quello non l'avevo mai vissuto, se non tra le righe di un libro.
- Sono così felice. - Mormorai.
- Davvero? - Chiese lui.
- Non pensavo che avrei mai potuto assaporare una gioia così vera. -
- In che senso? -
- Nel senso che quando sei bambino la felicità è lì ogni minuto, per le cose più piccole. Un gioco, una sorpresa, un bruco diventato farfalla. Ma poi diventi grande, e quelle cose non contano più. E ti rendi conto che la felicità, in realtà, l'hai perduta e non la puoi più ritrovare. -
- Perchè dici questo? -
Lo guardai per un momento. Mi fissava con quei suoi cristallini occhi azzurri, bellissimo nel suo abbigliamento principesco, e davvero interessato al mio discorso.
Sospirai e risposi mentre fissavo il mare per evitare il suo sguardo.
- Sono le preoccupazioni e le responsabilità. Studiare, cucinare, comprare le cose per la cena, sistemare la camera, preoccuparsi del bucato, ascoltare mia sorella quando litiga con il suo ragazzo o i suoi amici, proteggerla dal male che i miei genitori si fanno e ci fanno quando litigano... sono queste, le cose che contano quando diventi grande. E tutto il resto perde la sua magia. Ho dovuto imparare a gestire una famiglia e a prendermi cura degli altri molto in fretta... e senza rendermene conto sono diventata adulta senza aver davvero mai goduto delle bellezze della giovinezza. -
Per qualche minuto l'unico suono che ruppe il silenzio fu il calmo sciacquio delle onde. Mi girai verso Peter e notai che mi stava guardando con sguardo indecifrabile.
- Scusa se ti ho rattristato con questo discorso - mi sentii in dovere di dirgli, mettendo in fretta le parole una dietro l'altra - E che... che qui è così diverso. Qui devo pensare solo a me stessa, non devo temere il futuro, l'umore dei miei genitori quando tornano a casa o il brutto voto ad un compito perchè non ero nello stato d'animo adatto a studiare. Qui posso essere davvero io e sperimentare la libertà, le emozioni e la bellezza del mondo che sperimentano tutti i personaggi dei miei libri: potrò vivere di avventure per qualche tempo, come solo i giovani fanno, prima di tornare ad essere adulta. Quello che intendo dire - Aggiunsi, temendo di averlo annoiato con quelle mie riflessioni cupe - è che sono felice di essere qui. Davvero. -
Mi alzai in piedi, affondando nella sabbia bollente, e mi avviai verso i cavalli. Peter mi raggiunse un momento dopo, e bastò una breve cavalcata al trotto per raggiungere di nuovo Cair Paravel. Riportammo i cavalli nella stalla nel più completo silenzio.
All'improvviso, mentre riponevamo briglie e selle, Peter parlò, evitando il mio sguardo.
- Era per questo che piangevi? -
Per un attimo rimasi in silenzio.
- Sì. -
Posai la sella al suo posto e mi voltai Peter era lì, fermo davanti a me. L'intensità dei suoi occhi azzurri mi stordiva e non riuscivo a capire che stava succedendo. Peter mi prese il viso tra le mani e continuò a fissarmi negli occhi, finchè non mi baciò sulla fronte. Un attimo dopo era uscito dalla stalla.
Fu solo in quel momento che mi accorsi che stavo trattenendo il respiro.
 
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3 replies since 14/1/2014, 12:15   67 views
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